La parabola della Germania,
dalla Weltpolitik a Versailles

di Gianluca Pastori

Il Secondo Reich tedesco svolge un ruolo centrale nelle vicende che portano alla Grande Guerra. Il trattato di Versailles attribuisce esplicitamente (art. 231) alla Germania e ai suoi alleati ‘la responsabilità … per aver causato tutte le perdite ed i danni che gli Alleati ed i Governi Associati e i loro cittadini hanno subito come conseguenza della guerra loro imposta dall’aggressione della Germania e dei suoi alleati’. E’ la consapevolezza del sostegno tedesco in caso di intervento della Russia a spingere l’Austria-Ungheria a insistere – nella forma e nei contenuti – con le richieste avanzate alla Serbia dopo l’attentato di Sarajevo (28 giugno). La mobilitazione delle forze armate imperiali, il 1° agosto, gioca una parte importante nell’innescare il meccanismo della mobilitazioni in-crociate che porterà, fra entro la fine del mese, tutte le maggiori potenze europee (con l’eccezione dell’Italia) a entrare nel conflitto. La guerra e la sconfitta (mai, peraltro, ri-conosciuta) hanno in Germania ampie ricadute determinando – forse ancora più che in Italia – la dissoluzione del ‘vecchio’ ordine politico e l’emergere di uno radicalmente nuovo, incarnato nella repubblica – ‘borghese’ e ‘socialista’ – di Weimar. Indipenden-temente dalle ragioni che sostengono le scelte del governo imperiale, gli effetti che esse producono hanno, quindi, una portata che trascende i ‘semplici’ esiti del conflitto.
La questione cruciale è cosa spinga la Germania, nel corso del luglio 1914, a schierarsi anche militarmente a sostegno di Vienna. Nel caso della Serbia, il vincolo della Triplice alleanza (rinnovata nel 1912), impone a Berlino di mantenere, in assenza di aggressione diretta, ‘una neutralità benevola’ (art. 4) o, al più, ‘di concertarsi in tempo utile sulle mi-sure militari da prendersi in vista di una cooperazione eventuale’ (art. 5). La mobilita-zione parziale russa, il 30 luglio, sebbene formalmente diretta verso l’Austria-Ungheria, tuttavia, pone Berlino nella necessità di adottare provvedimenti anticipatori concreti. Il potenziale militare dell’impero zarista (5.970.000 uomini, fra dispositivo di pace e ri-serve, contro i 4.500.000 della Germania), pur ostacolato da un sistema di mobilitazione farraginoso, è percepito, dallo Stato Maggiore prussiano, come una grave minaccia. La possibilità di successo in una guerra su due fronti (un incubo cui la ‘vecchia’ politica bi-smarckiana aveva sempre cercato di sfuggire) si legava, da una parte, alla capacità di as-sumere un’iniziativa rapida e decisiva, dall’altra al perfetto sincronismo della sua messa in atta. In questa prospettiva, la sconfitta della Francia doveva giungere prima del com-pleto dispiegamento delle armate zariste, in modo da consentire il ridispiegamento sul fronte orientale delle unità tedesche prima schierate su quello occidentale.
Tuttavia, le ambizioni di Berlino sono più ampie. L’incidente di Sarajevo offre alla Germania di Guglielmo II l’occasione di accreditare definitivamente il suo ruolo di Grande Potenza non solo sul teatro europeo, ma soprattutto sulla scena internazionale, dove dagli anni Novanta dell’Ottocento aveva iniziato a manifestare un crescente dina-mismo. Nel ventennio successivo alla sua proclamazione (1871), il Secondo Reich aveva sperimentato una notevole crescita socio-economica, ponendosi al centro della c.d. ‘seconda rivoluzione industriale’. Dalla fine del XIX secolo, Berlino si era inoltre impe-gnata in un’ambiziosa politica estera (Weltpolitik) e militare (Machtpolitik), che dopo un primo periodo di apparente convergenza aveva finito per entrare in collisione con la po-sizione e con gli interessi britannici. La c.d. naval race (‘corsa alle navi’) è uno degli aspetti più noti di questa competizione, e quello più evidenziato dalla stampa dell’epoca. Il varo di una flotta da battaglia progettata e realizzata secondo gli standard più moderni e imperniata su una serie di corazzate ‘all big guns’ (le c.d. Dreadnaughts) era infatti considerato dalla Germania presupposto necessario alla realizzazione dei suoi progetti, ma era, allo stesso tempo, percepito da Londra come una minaccia inaccettabile a una posizione internazionale messa in discussione anche dall’emergere di altri concorrenti.
Tensioni europee ed internazionali si saldano, così, nella decisione tedesca di imboccare la via della guerra. Come per la maggior parte dei belligeranti, i vertici politici e militari del Reich prevedono un conflitto breve, seguito da un trattato di pace che spiani la stra-da alle (molte) ambizioni del Paese. Nel caso tedesco, questa previsione si fonda soprat-tutto sulla qualità delle forze armate nazionali, sul loro grado di preparazione, e sull’accuratezza della pianificazione strategica e operativa. Fra il 1914 e il 1918, la Germania riesce a schierare 11.000.000 di uomini contro i 12.000.000 della Russia, gli 8.900.000 della Gran Bretagna, gli 8.400.000 della Francia, i 7.800.000 dell’impero au-stro-ungarico e i 5.600.000 dell’Italia. Questo a fronte di una popolazione di 67.000.000 di abitanti, contro i 167.000.000 della Russia, i 46.000.000 della Gran Bretagna, i 39.600.000 della Francia, i 48.500.000 dell’impero austro-ungarico e i 36.000.000 dell’Italia. Inoltre, sebbene all’inizio del conflitto l’esercito tedesco non si distaccasse molto dagli altri eserciti europei sul piano tecnico e operativo, larga parte delle infra-strutture nazionali (prima fra tutte la rete ferroviaria) aveva trovato collocazione all’interno del sistema di mobilitazione e radunata; un fatto, questo, che assicurava al Paese un notevole vantaggio sia sulla Francia sia sulla Russia nella realizzazione dei primi movimenti offensivi.
Più che dall’ambito strettamente militare, le debolezza della Germania derivava, quindi, da una generale vulnerabilità strategica. L’impero tedesco, frammentato in quattro con-tinenti (oltre all’Europa: Asia, Africa, e Oceania), era il prodotto dell’aggregazione di piccoli possedimenti difficilmente difendibili. Con l’unica eccezione della lunga cam-pagna in Africa orientale, per Berlino, la guerra si riduce presto a un affare sostanzial-mente europeo. In Europa, poi, la necessità di suddividere lo sforzo bellico su due fronti – orientale e occidentale – dalle caratteristiche profondamente diverse, rappresenta un ulteriore fattore di vulnerabilità, aggravato dalla necessità di operare sistematicamente, ad Oriente, a sostegno del più debole alleato austro-ungarico. Anche il contributo della Hochseeflotte si dimostra, nel corso di tutto il conflitto, molto inferiore alle attese. La scelta di fare ricorso alla guerra sottomarina indiscriminata contro i convogli alleati nell’Atlantico e nel Pacifico è il segnale più indicativo delle debolezza di una flotta che – dopo il successo tattico dello Jutland (31 maggio-2 giugno 1916) – rinuncia di fatto alle operazioni su larga scala e al tentativo di rompere il blocco imposto alla Germania dalle Potenze Alleate. Questa scelta, peraltro, avrà conseguenze politiche importanti sul lungo periodo, e a tempo debito favorirà l’intervento degli Stati Uniti nel conflitto.
La principale area di vulnerabilità tedesca riguarda, tuttavia, l’ambito economico. No-nostante il grado di sviluppo industriale (anzi, in parte, proprio a causa di questo), il Se-condo Reich è, nell’agosto 1914, fortemente dipendente dalle importazioni di materie prime, fra cui quelle di carbone (nonostante le ampie disponibilità interne) e di metalli non ferrosi. Pur possedendo un’importante industria chimica, il Paese dipende inoltre dall’estero per l’approvvigionamento dei fertilizzanti che ne alimentano il settore agri-colo. Il blocco navale imposto delle Potenze Alleate incide pesantemente su quest’area di vulnerabilità. Secondo le stime, già nel 1915, esso aveva determinato una contrazione sia dell’import, sia dell’export tedesco di oltre il 50%, anche se gli impatti sulla popola-zione civile (pure presenti) sono in parte limitati dell’efficacia del sistema di raziona-mento introdotto nel gennaio 1915 e dal programma di mobilitazione economica intro-dotto nell’agosto 1916 (‘Programma Hindenburg’). La diffusione di prodotti surrogati (ersatz) cresce, quindi, nel corso del conflitto, sia in ambito civile, sia militare; sono state comunque avanzate riserve sul fatto che l’impatto del blocco economico sulla società e le Forze Armate tedesche sia stato tale di provocare, prima del termine delle ostilità, un tracollo del fronte interno simile a quello accaduto in Austria-Ungheria.
Proprio le ragioni della sconfitta avrebbero innescato un ampio dibattito dopo il 1918. Al momento dell’armistizio (Compiègne, 11 novembre 1918), le forze tedesche – sebbene in fase di ripiegamento – occupavano ancora larghe porzioni di territorio francese e belga. Sul fronte occidentale erano schierati quattro gruppi d’armate (da nord a sud: Kronprinz Rupprecht, Deutscher Kronprinz, Gallwitz, e Herzog Albrecht von Württem-berg), mentre sul fronte orientale – dove la pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918) aveva posto fine alle ostilità con la Russia in cambio di pesanti concessioni territoriali – il di-spositivo comprendeva altri 500.000 uomini, sebbene, per la maggior parte, organizzati in forze di terza linea. L’occupazione della Polonia orientale, dei territori baltici, della Bielorussia e dell’Ucraina dopo Brest-Litovsk aveva permesso, inoltre, alla Germania di mettere le mani sulle infrastrutture e sulle risorse naturali e minerarie della regione, pri-vando la Russia di un terzo delle sue ferrovie, del 73% delle riserve di minerali ferrosi, dell’89% della produzione di carbone e di circa 5.000 fabbriche e impianti produttivi. Sebbene asserragliata dietro i campi minati, anche la flotta da guerra era sostanzialmente intatta, con la grossa eccezione della squadra del Pacifico (Ostasiengeschwader), andata perduta nella battaglia delle Falkland, già all’inizio del dicembre 1914.
Su queste basi, la retorica postbellica avrebbe spesso visto l’armistizio come una ‘pu-gnalata alle spalle’, inferta dalla politica a un esercito ancora capace di tenere il campo pur di fronte a un nemico che, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, aveva visto cre-scere considerevolmente il numero di propri effettivi. La formazione dell’American E-xpeditionary Force (AEF) aveva, infatti, gettato altri 4.000.000 di uomini (di cui la metà presenti in Francia al momento dell’armistizio) sulla bilancia dal lato delle Potenze Al-leate e Associate. Proprio nel 1918, inoltre, l’AEF aveva iniziato a svolgere una parte importante nelle operazioni sul campo, partecipando in forze all’offensiva dell’Aisne (battaglie di Belleau Wood, 1-26 giugno, e Château-Thierry, 18 luglio), alla battaglia di Saint-Mihiel (12-15 settembre), e all’offensiva di Meuse-Argonne, del 26 settembre all’armistizio. Le disposizioni del trattato di Versailles (28 giugno 1919) avrebbero ac-centuato questo senso di frustrazione. A Versailles, fra l’altro, le Forze Armate tedesche sarebbero state pesantemente ridimensionate, sia nel numero (ridotto a 100.000 uomini su un massimo di dieci divisioni), sia nei mezzi. Nello stesso senso avrebbe agito il clima di guerra civile che avrebbe caratterizzato la vita tedesca degli anni 1919-20 e il ruolo che le stesse Forze Armate avrebbero svolto negli eventi di tale biennio.
Per queste strade, la prima guerra mondiale avrebbe svolto una parte importante nel fa-vorire l’ascesa di Hitler e del nazionalsocialismo. La debolezza delle repubblica di Weimar (1919-33), le violenze seguite all’armistizio; la natura apertamente punitivo del trattato di pace; le perdite territoriali; il dissesto economico e sociale prodotto dall’iperinflazione del biennio 1921-23; l’occupazione di regioni-chiave della Germania quali la Renania, la Saar e il bacino della Ruhr... avrebbero contribuito, infatti, ad ali-mentare la tensione e il malcontento che furono substrato dell’esperienza hitleriana. Più ancora dei 2.500.000 morti fra civili e militari (3,8% della popolazione) e dei 4.250.000 feriti, questa rappresenta l’eredità duratura della prima guerra mondiale nella storia e nella memoria tedesca. La fine del Secondo Reich, insieme alla disintegrazione dell’Impero Austro-Ungarico, avrebbe aperto un vuoto geopolitico che gli Stati nati dal-le paci di Parigi non sarebbero stati in grado di colmare. Le turbolenze degli anni fra le due guerre mondiali sono un buon indicatore di tale stato di cose. Solo dopo il 1945 le rigidità della guerra fredda sarebbero riuscita a dare una (provvisoria) stabilità alla re-gione, senza tuttavia riuscire a contenere stabilmente il potenziale attrattivo di una Ger-mania che rimane ancora oggi il perno politico ed economico del vasto spazio mitteleu-ropeo.