Il
motto ''Eia eia eia, alala''', di cui si appropriò, in
seguito, la propaganda fascista, fu coniato da Gabriele D'Annunzio
saccheggiando testi di Giovanni Pascoli.
Lo asserisce la storica della letteratura
Annamaria Andreoli, docente all'universita' della Basilicata e
consulente sia dell'archivio del Vittoriale, la villa di Gardone
dove dimoro' a lungo il Vate, che dell'archivio di Castelvecchio,
dove sono conservati i carteggi e i manoscritti del poeta del
Fanciullino.
Dall'attento
esame dell'opera pascoliana e dai documenti conservati negli archivi
dei due grandi autori emerge che una poesia dei ''Poemi conviviali''
(1904) e un'altra delle ''Canzoni di re Enzio'' (1908) sono le
sorprendenti fonti del più clamoroso e fortunato slogan
dannunziano.
E' noto che il Vate pronunciò la prima volta il grido d'incitamento
e insieme di evviva durante la Grande Guerra, il 9 agosto 1917,
nel campo aviatorio della Comina, al ritorno dal bombardamento
di Pola: ''eia eia eia, alalà''' venne suggerito dal Vate
per sostituire il ''barbarico'' hip hip urrà. Ma è
completamente sconosciuto che D'Annunzio coniò il grido
limitandosi ad accorpare due incitazioni riprese dai poeti tragici
greci direttamente dal Pascoli, i cui testi - si sa ora dall'archivio
del Vittoriale - annotava attentamente. Senza contare che l''eia
eia eia'' citato dall'autore di ''Myricae'' era stato già
plagiato dallo scrittore abruzzese nel poema ''La nave'' (1908).
Un plagio, quest'ultimo, che Pascoli aveva rilevato di persona,
come risulta da un manoscritto inedito rintracciato recentemente
nella casa di Castelvecchio dalla professoressa Andreoli.
Figlia di Polemos, Alalà accompagnava in battaglia il dio
della guerra Ares: secondo le tradizioni degli Antichi, il grido
di battaglia del Dio greco consisteva infatti nel suo nome "Alale
alalà".
I soldati greci lo fecero quindi proprio e presero anch'essi l'abitudine
di usarlo durante i combattimenti.
Si crede che l'uso di questa parola sia derivato per onomatopea
dall'inquietante gracchiare emesso dai corvi che, all'epoca, sorvolavano
a migliaia i campi di battaglia, per cibarsi dei cadaveri insepolti.
Adottata per calco linguistico come grido di guerra nel Medioevo,
soprattutto dai Crociati, "Alalà" riaffiorò
nei componimenti poetici di Giosué Carducci e Giovanni
Pascoli, sul finire del XIX secolo.
« Ma s'io ritrovi ciò che il cuor mi vuole,
ti getto allora un alalà di guerra, … »
(da L'Amore di Giovanni Pascoli)
Eia! Eia! Eia! Alalà!
In epoca moderna, il termine fu ripreso da Gabriele D'Annunzio
per coniare il celebre incitativo "Eia! Eia! Eia! Alalà!"
(o più comunemente "Eia, Eia! Alalà!")
, quale grido di esultanza degli aviatori italiani che parteciparono
all'incursione aerea su Pola del 9 agosto 1917, durante la Prima
guerra mondiale. Se "Alalà!" era l'urlo di guerra
greco, "Eia!" era il grido con cui, secondo una tradizione,
Alessandro Magno era solito incitare il suo cavallo Bucefalo.
In seguito, l'esclamazione fu inserita ne La canzone del Quarnaro
che racconta l'avventura della Beffa di Buccari; raid dimostrativo
portato a termine dagli incursori della Regia Marina l'11 febbraio
1918.
« Siamo trenta d’una sorte,
e trentuno con la morte.
EIA, l’ultima!
Alalà! »
(da La canzone del Quarnaro di Gabriele D'Annunzio)
Il motto venne poi usato anche dai soldati italiani ribelli che
seguirono D'Annunzio nell'Impresa di Fiume del 1919 e divenne
popolare in tutta Italia quando fu adottato dal Fascismo, quale
grido collettivo d'esultanza o incitamento. Nonostante la diffusione
nazionale, il motto declinò rapidamente dopo la caduta
del fascismo, essendovi per la cultura di massa indissolubilmente
legato.
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