9 novembre 2017

"ARDITI"
1917-1918



Articolo di Silvano Guidi
 

CONVEGNO

Sala dei Comandanti
Centro Documentale Esercito
Milano - Via Vincenzo Monti 59

IL MITO DEGLI ARDITI
FRA PROPAGANDA, REALTÀ STORICA
E MEMORIA NEGATA

Nella adeguata cornice del Centro Documentale dell’Esercito, ospiti del Comandante Colonnello Mauro Arnò, gli alpini del Comitato per il Centenario del gruppo milanese “Giulio Bedeschi” hanno fatto rivivere, nel pomeriggio dello scorso 9 novembre, mito, storia, ruolo e riverberi politico-sociali degli Arditi.


La "squadra" al completo, da sx:
Renzo Giusto (coordinatore del Comitato per il Centenario), Roberto Roseano, Andrea Saccoman,
Gastone Breccia, Giovanni Fantasia, Col. Mauro
Arnò (Comandante CDE), Gianluca Pastori, Angelo Pirocchi.

Foto©Pietro Malaggi
Foto©Giovanni Giunta

Precursori dei moderni corpi speciali, fanti impavidi e con preparazione d’élite, capaci di attacchi rapidi e violenti, di incursioni silenziose e devastanti, gli Arditi, tanto essenziali nelle fasi ultime della Grande Guerra quanto frettolosamente rimossi dalla memoria nazionale per l’incauta associazione tout court con il fascismo, appartengono a un capitolo della Storia Patria mai scandagliata a sufficienza.
Infatti il pomeriggio della “memoria” è iniziato con l’impegno formulato dal moderatore del convegno, Generale Giovanni Fantasia: «Gli arditi sono stati dimenticati. Noi li ricorderemo».
È toccato al Professore Andrea Saccoman, della Bicocca di Milano, rompere il ghiaccio. «I reparti d’assalto in senso stretto sono davvero figli della prima guerra mondiale; ma in senso lato esistevano da tempo e avevano radici nella fanteria e nella cavalleria di tutti gli eserciti, principali destinatarie degli assalti a seconda delle situazioni tattiche delle battaglie» ha esordito il docente. «Ma durante la prima guerra mondiale avvenne un fatto non previsto e non prevedibile: il movimento delle armate tedesche verso ovest venne ostacolato dai francesi con trincee e fortificazioni cosicché, a un certo punto, diventato impossibile ogni aggiramento, tutto l’asse compreso fra Nieuwpoort in Belgio e il confine svizzero divenne un’unica e complessa linea di doppia trincea e il conflitto, da arioso e movimentista, si immobilizzò in guerra di difesa e fortezze. Nacque così l’esigenza di svincolarsi dalla staticità e di inventarsi qualcosa che permettesse colpi di mano contro i capisaldi nemici. I primi ad agire in tale direzione furono i tedeschi, i francesi fecero altrettanto e gli italiani vennero per ultimi con gli Arditi, ma furono coloro che segnarono i progressi più significativi».
Il Dottor Angelo Pirocchi, storico e ricercatore, è risalito alle origini dei reparti d’assalto del Regio esercito. «All’inizio ci furono gli esploratori, truppe di ricognizione che, alla bisogna, potevano trasformarsi in truppe d’assalto; poi presero piede le compagnie della morte, destinate ad essere soprattutto “tagliafili”; fino a quando si scoprì che i reticolati potevano essere divelti con le bombarde» ha cominciato ad elencare lo studioso. «Altro prodromo sulla strada della nascita degli Arditi fu l’individuazione dei più valorosi, non da far confluire in reparti speciali, ma da trattenere nelle trincee per essere da esempio e galvanizzare i commilitoni. Fino a quando non fu rinvenuto un manuale degli assaltatori tedeschi, subito distribuito per conoscenza e per trarne ragione di emulazione. Gli Arditi nacquero ufficialmente il 26 giugno del 1917, per diventare specialità operativa quasi un mese più tardi, il 29 luglio. Armati in modo speciale, ben nutriti, ben pagati, ben addestrati, si fregiavano di un distintivo speciale per essere riconosciuti».
È stata quindi la volta della relazione di Roberto Roseano, storico, scrittore e fotografo, ma soprattutto nipote di un Ardito e autore di una meritoria ricerca fra archivi e registri militari che ha disseppellito memorie mai radiografate con tanto rigore. «Mio nonno aveva già combattuto sulla Bainsizza. Gli hanno offerto di entrare negli arditi: dovevi essere celibe e senza figli. E questo già fa comprendere quanto fosse alto il rischio di lasciarci la pelle» ha esordito con il ricordo familiare Roseano. «La scuola di formazione faceva una bella scrematura fra chi era coraggioso e chi no. Il motto latino degli arditi “Si fractus illibatur orbis, impavidum ferient ruinae” citazione dotta incomprensibile ai più, riassumibile più tardi nel più sintetico “me ne frego”, svela l’indole di quei combattenti. Mio nonno ha partecipato alla battaglia dei tre monti e poi a quella del Solstizio. Tornò incolume a fine guerra e quando morì volle essere accompagnato alla tomba con la bandiera degli arditi».
Il Dottor Roseano ha tentato di rispondere con dei numeri a tutta una serie di domande. Quanti Arditi hanno sacrificato la loro vita per la Patria? Da quali Regioni e da quali città provenivano? Quanti anni avevano? Quanti sono stati decorati? Quali i riconoscimenti? Quali i reparti con maggior numero di decorazioni? È così via. Interrogativi non tutti colmati in modo esaustivo. Ma alcuni punti fermi lo storico Roseano li ha raggiunti. I decorati sono stati 3.021 e le decorazioni 3.491. La Regione con più eroi è decisamente la Lombardia, anche in funzione della maggiore popolazione. Ma, a prescindere dalla cifra assoluta, la Lombardia mostra ugualmente un qualcosa in più (18,4 % di decorati, rispetto al 14% di popolazione). Il totale degli arditi caduti è stato di 3.145 su un numero complessivo di 30-35.000 uomini inquadrati come arditi. I caduti quindi rappresentano il 10-15 per cento del totale. «Credevo di più» ha commentato Roseano.
Al Professore della Cattolica Gianluca Pastori è toccato il compito di collocare gli Arditi anche al di fuori dei campi di battaglia, in quel mondo parallelo dove politica e società si intrecciano. «È un terreno scivoloso questo. La storia recupera la memoria, anzi tante memorie. E la memoria a posteriori ingigantisce e deforma gli eventi. Così è accaduto che nella memoria a posteriori della nazione arditismo e fascismo siano stati accomunati in un rapporto surrettizio e non correttamente identificativo. Caduto il fascismo non si è più potuto parlare dell’arditismo».
Il docente ha tenuto a operare un recupero di oggettività storica. «Gli Arditi sono serviti a dimostrare al resto dell’esercito, alla Nazione, ad alleati e nemici che l’Italia si muoveva. Gli arditi sono stati una straordinaria macchina di propaganda. È la propaganda che fece crescere il mito degli arditi, i quali erano mobilitanti per la trincea. In fondo ognuno sentiva in sé di poter diventare ardito. Nacque una retorica non sterile, ma autenticamente in grado di rispecchiare uno stato d’animo. Perché no?.. L’arditismo fu un movimento da un lato spinto dal governo, ma fu anche un’adesione dal basso. La politica, come la guerra, non si fa in un vuoto culturale; ma in un contesto che premia certi valori. L’arditismo espresse non solo un modo di combattere, ma una filosofia per cambiare anche altro: società, nazione, nazionalismo.... così si prestò a mille interpretazioni. Nell’arditismo c’è davvero tutto: anche l’anarchia, anche il socialismo, anche la pulsione rivoluzionaria. A guerra finita tutti questi nodi vennero al pettine . Dal punto di vista dell’ordine pubblico gli arditi congedati furono molto destabilizzanti. Ecco perché coloro che rifiutarono il congedo vennero spediti prima in Libia e poi in Albania. Nacque così la “leggenda nera”».
Ultimo in ordine di intervento, ma non ultimo quanto a prestigio e a spessore culturale è stato il Professore Gastone Breccia, che ha tracciato una storia della funzione dei corpi speciali dall’antichità ai giorni nostri. Il docente dell’Università di Pavia ha ricordato il testo “madre” ispiratore degli assaltatori di tutto il mondo, un testo cinese del IV secolo a.C. di Sun Tzu, che descrive “la teoria dell’acqua” nei combattimenti. «Evitare i pieni e attaccare i vuoti: era questo il principio da seguire» ha detto Breccia. «Ci sono azioni talmente difficili da condurre che presuppongono l’impiego di truppe speciali. Bisogna sapersi adattare al nemico. Bisogna saper usare esplosivi, armi sofisticate, avere capacità di infiltrazione, saper andare oltre le linee nemiche, condurre raid e incursioni a vasto raggio. Nel ‘700 cominciano ad apparire piccoli contingenti di truppe capaci di andare oltre, guidate da comandanti dotati di grande ardimento. Questa linea di pensiero approda a un punto fermo durante le guerre napoleoniche. Le truppe d’assalto conoscono un vero sviluppo durante la Grande Guerra come tentativo di superare lo stallo. Vengono impiegate granate a mano, lanciafiamme, cannoni a canna corta calibro 75, mitragliatrici leggere. Solo i cannoni non avranno fortuna. Erano cannoni di appoggio ravvicinato. La procedura tattica è proprio quella dell’acqua: sapersi infiltrare. Dopo la seconda guerra mondiale il confronto fra potenze contrapposte cambia registro per la deterrenza nucleare. Le forze speciali vengono utilizzate per risolvere situazioni di crisi localizzate. Sono sempre piccole unità speciali destinate a operare in contesti semisegreti e circoscritti. Formate da professionisti di altissimo valore, ma che funzionano solo se alle spalle hanno una strategia efficace. Le forze speciali possono risolvere problemi spinosi, ma solo se ci sono volontà politica e obiettivi strategici chiari» A conclusione del Convegno il presidente del Comitato per il Centenario, avvocato Sandro Vincenti, ha donato a tutti i relatori e a Luigi Boffi, presidente della Sez. ANA di Milano, una preziosa agenda con copertina in pelle, personalizzata da iniziali.
Il successo del Convegno è stato grande, caldo, unanime e chiuso da un breve e conviviale rinfresco.